Tratta dal romanzo di Scurati, la discussa serie tv di Joe Wright esaspera la rottura della quarta parete, tra caricatura e macchiettismo, e convince a metà
Ammesso servisse verificarlo, la miniserie "M - Il figlio del secolo" tratta dall'omonimo romanzo di Antonio Scurati, proprio per le polemiche e il chiacchiericcio che ha scatenato, conferma quanto la figura di Benito Mussolini sia la nemesi per eccellenza della storia italiana. D'altronde, il nostro paese non ha mai fatto i conti veramente con i germi del Ventennio sopravvissuti a livello sociale, antropologico e istituzionale.
Il fascismo non è morto con piazzale Loreto, al massimo è stato scientemente rimosso a partire dall'Amnistia Togliatti. Il prologo programmatico della miniserie lo ripete catartico, "siamo ancora tra voi": "M - Il figlio del secolo", infatti, racconta anzitutto cosa sarebbe oggi il fascismo, quanto cioè il suo fantasma oggi sia mutato, irrisolto, polimorfico. Nella serie Mussolini è un trasformista, un burattinaio, un violentatore, metà cannibale metà vampiro, a là Larraín: se il Pinochet di "El Conde" indossava le Nike, il Mussolini interpretato da Luca Marinelli guarda in camera, fa tendenza, veste i panni dell'influencer. Perché tanto agli autori della serie (Stefano Bises e Davide Serino), quanto al regista Joe Wright, interessa ribaltare la dottrina fascista – quella "del fatto" dice Mussolini -, e intessere una narrazione al limite del parossistico, perché "M - Il figlio del secolo" è estrinsecamente propaganda.
Il termine "fascio" - con cui il 23 marzo 1919 a Milano Mussolini chiama i collettivi di violenza armata che poi de facto formano il neonato movimento (e poi, nel 1921, partito) fascista - in latino indica un gruppo di oggetti più o meno della stessa natura, simili[1]. Il neologismo che ne derivò e che tutti conosciamo – "fascismo" -, rappresenta cioè, almeno a livello etimologico, un insieme di persone con la stessa idea, gli stessi comportamenti. Il fascismo, dunque, è un prodotto - lessicale, culturale, politico - italianissimo per quanto lo si dimentichi. Che, nel corso del tempo, per via del suo carattere archetipico, è stato molto spesso interpretato come una sorta di erudito e affascinante esperimento intellettuale (d'altronde, gli intellettuali che vi si prestarono furono moltissimi) andato però a finire male[2], da cui poi sono originati figli deformi (e sempre violentissimi), per esempio la Spagna di Franco.
Una delle ragioni che ha spinto gli autori di "M- Il figlio del secolo" a rompere la quarta parete – che, a scanso di equivoci, è un'idea sperimentatissima tanto in letteratura, quanto a teatro e sul grande schermo, senza distinzione di genere, da Calvino alle pièce pirandelliane, da "Io e Annie" di Allen a recenti serie tv di successo come "Sherlock" o "The Office" – va proprio in questa direzione: fare di Mussolini un pedagogo, che per primo "ha fatto scuola", e ha ispirato oltre i confini italiani molte altre spinte liberticide - quella hitleriana su tutte, soprattutto a livello istituzionale più che ideologico, tant'è che il Führer "imitò Mussolini modernizzandolo[3]". Eccolo, infatti, che nel prologo, Mussolini si presenta a noi con la testa abbassata, per poi alzarla lentamente e farsi riconoscere in close-up, ammirare, come fosse un personaggio da cabaret, pronto a mettere in scena la sua eredità immortale ancora una volta, seppur in una mise diversa – "la comprensione di una realtà può passare soltanto attraverso il rinnovamento delle forme[4]", scriveva Brecht (altro autore che ruppe la quarta parete).
Cine-decifrazione
A cascata, Mussolini che parla in camera produce una bulimia di effetti meta-cinematografici che dimostrano quanto l'intera serie tv punti sull'uso/abuso di questo meccanismo. Il primo, il più evidente, è quello metatestutuale: il Duce commenta tutto, non gli sfugge niente, e soprattutto spiega, dimostra, avverte, motiva cosa sta per fare o dire, come fosse un Benshi, quei commentatori giapponesi che all'inizio del Ventesimo secolo illustravano i film muti agli spettatori[5].
L'obiettivo, altrettanto manifesto, è da un lato quello di dirottare, accentrare su sé stesso l'attenzione (e avviare un interessante studio della figura come forma), dall'altro, l'intenzione è quella di "disnarrare", il termine che coniò negli anni Sessanta Alain Robbe-Grillet[6]. Il Mussolini di Wright, infatti, plasma la narrazione storiografica dall'interno, come fosse un contradditorio auto-endogeno, mosso dall'intenzione di assecondare il puro dato di realtà (fascista) e, diceva sempre Robe-Grillet, imporre allo spettatore di ridefinire la relazione tra l'interpretazione di ciò che guarda e, in questo caso, conosce.
Di conseguenza, la serie gioca ed esacerba il grado di referenzialità: tra la Milano gotico-vittoriana che ricorda i film in costume di Wright ("Espiazione", "Orgoglio e pregiudizio"), i pochissimi (tre) filmati di repertorio, il morphing che bleffa un tono surrealista mai raggiunto, la mimesi dell'oratoria e della prossemica di Mussolini, la chiusura a iride che imita i cinegiornali, le sequenza ricche di simbolismi, l'uso di un asse di inquadratura molto spesso "teatrale", che tende a fotografare Marinelli per lo più dal basso (tipico dei filmati di propaganda del Terzo Reich) e in backlight, sia durante lo sguardo in camera sia mentre arringa la folla sul palco dei comizi.
Il secondo effetto, per citare il regista sovietico David Abelevič Kaufman – rimasto famoso con lo pseudonimo di Dziga Vertov, che diede anche il nome al collettivo di registi francesi di cui alla fine degli anni Sessanta faceva parte Jean-Luc Godard -, induce una "cine-decifrazione" del mondo, sicché il personaggio di Marinelli imposta una contro-narrazione omodiegetica, in cui la modalità didattica si trasforma in volontà deittica: Mussolini ci indica cosa guardare, chiama la camera a sé (questo sì, è meno frequente), guida e filtra la nostra ermeneutica degli eventi, quasi volesse costruire un "cine-occhio" (direbbe Vertov) dallo spettro panoptico. Al riguardo, viene in mente la sequenza (del secondo episodio) in cui Mussolini parla in camera e quest'ultima lo precede a mezzaria, mentre lui percorre il tracciato circolare del carcere, una, due volte, metafora di un girone dantesco in cui i condannanti sono in marcia verso il contrappasso.
Il terzo effetto è quello della cosiddetta "mise en abyme" di André Gide, ossia quella tecnica narrativa (o visuale, resa famosa da Escher per esempio) che è di solito riassunta con la formula "una storia nella storia"- pensiamo a capolavori come "8 1/2" di Federico Fellini o "Mulholland Drive" del compianto David Lynch. Ebbene, nel caso di "M - Il figlio del secolo", questo effetto che potremmo definire "metalettico", di "recita nella recita" che Mussolini porta avanti, frantuma il continuum diegetico e perfino quello mimetico, che Marinelli comicizza, tra accento romagnolo, corporeità "langiana" e sguardo "da selvaggio" come lo chiama Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli), la "musa" di Mussolini e mente dell' "arte fascista".
La serie, dunque, è alla ricerca costante di un nuovo inizio, di un primo ciak che (ri)precisi il prologo d'apertura, capace di rivilitazzare allo sfinimento un metanarrazione sempre diversa, rizomatica. In questo senso, emula l'ossessione dell'ultimo lavoro di Stefano Massini - "Mein Kampf – Da Adolf Hitler" (Einaudi, 2024) - in cui l'autore fiorentino mette in bocca al Führer una domanda che ripeterà all'infinito: "Da dove si inizia per cambiare la storia? Da dove si inizia?". Ebbene, una delle forze di "M - Il figlio del secolo" è proprio nella capacità di ri-tematizzare questa ricerca, di tradurla nel motore narrativo della serie, al di là dell'epilogo storico, ossia la nomina a primo ministro di Mussolini post omicidio Matteotti, nell'inquadratura in perfetta prospettiva centrale che rievoca (e non poco) la teatralità dell'adattamento di Wright di "Anna Karenina".
Cani rabbiosi
Attorno alla rottura della quarta parete, l'altro elemento che connota la serie sono le scariche diegetiche in cui la narrazione accelera, in cui cioè esplode la violenza fascista. Queste sequenze, tendenti allo splatter, informano forse la dimensione più debole e meno riuscita della serie.
Il paragone col Tarantino di "Bastardi senza gloria" è quasi inevitabile, peccato però che né l'atmosfera né il tono di "M - Il figlio del secolo" giustifichino una simulazione per lo più macchiettistica del regista americano. La serie, cioè, cade nella trappola di inscenare il dramma a tutti i costi (per lo più con un approccio discutibilissimo): Wright e collaboratori forzano il contradditorio con la tragedia e di conseguenza impediscono al "One Man Show" mussoliniano di portare a termine del tutto la sua auto-ridicolizzazione.
Inoltre, la scelta di rendere per così dire il male visibile, spettacolare, inarrestabile, depotenzia (e non poco) quella che forse era l'intuizione migliore dell'intero progetto e su cui tra l'altro si fonda l'idea del dialogo diretto con lo spettatore-utente: fino a che punto, le parole i sentimenti che vediamo rappresentati, sono condivisibili? La liberazione dei "cani rabbiosi", come li chiama Mussolini, mette paradossalmente la museruola al lunghissimo discorso teoretico-satirico del Duce, senza che un'immedesimazione, anche solo istintiva, possa ingenerarsi. Perché alla fine è quello il grande mistero, "come è stato possibile" direbbero Arendt e altri; perché, "cosa è stato possibile", lo sappiamo benissimo, o almeno dovremmo.
Vincere (?)
La missione del Mussolini di Wright, quindi, è a tratti incompiuta. La causa, paradossalmente, deriva dal fatto che i tratti provocatori della serie non sono spinti realmente all'esasperazione, non ci si fida fino in fondo dell'efficacia della "rappresentazione fascista". Conseguentemente, il didascalismo di questo Mussolini, da sfida irriverente tende a diventare sterile, autoreferenziale. È come se "M - Il figlio del secolo", alla fine, cercasse di ribadire, come ha fatto lo stesso Marinelli durante l'imponente campagna promozionale della serie, che lui non ha nulla in comune con chi interpreta. Sarebbe, ça va sans dire, un'informazione pleonastica se non considerassimo la semiologia contemporanea in cui l'immagine fa la psicologia e non viceversa[7], ma il lavoro di Wright funziona proprio laddove la sovrapposizione è totale, ontologica, e non tutela lo spettatore.
Infatti, non è il roboante armamentario formale e la parallela messa in scena cialtronesca a rendere improbabile nella serie la poiesi autoritaria, bensì una concezione in definitiva ludica e ingenua della propaganda. Eppure, basta affidarsi a uno dei più noti intellettuali antifascisti, Gaetano Salvemini[8], per rendersi conto del principio di intrattenimento che il fascismo porta con sé soprattutto nella sua fase embrionale: il movimento ha "tenuto" un popolo (l'etimologia latina di "intrattenere" è la stessa del verbo "tenere"), ha edificato un recinto culturale e politico in cui la caricatura era essa stessa rivoluzione a tutti i livelli – pensiamo al famoso "cinema dei telefoni bianchi" -, in cui l'illusione era un ingrediente fondativo: "nel 1919, la popolazione aveva […] una viva intolleranza delle condizioni attuali, l'aspettativa certa di grandi cambiamenti e un desiderio bruciante di avere parte attiva nella costruzione di un mondo migliore[9]".
In questo senso, la riproduzione circense del potere fascista di "M - Il figlio del secolo" è competente, in linea con il Marinetti-pensiero, che "si batteva per una arte-viva, esplosiva, per un'italianità parossista, per l'abolizione della logica, per il pagliaccismo nell'arte e nella vita[10]". Tuttavia, nella miniserie, manca la comprensione di un passaggio cruciale a livello epistemologico: il potere fascista è "epifenomeno", cioè un effetto collaterale, non "fenomeno" di per sé. Per dirla con un'altra provocazione dall'afflato aristotelico, il fascismo è un ottimo esempio in cui la forma si è fatta brutalmente sostanza, ma nella serie, questo salto non è completato. D'altronde, scriveva Malaparte, che originariamente sposò il fascismo: "i patrioti tedeschi, non potendo prendere sul serio Mussolini, prendono sul serio la sua caricatura[11]". Insomma, "M- Il figlio del secolo", tornando a Larraìn, ci vende un'ombra ma non ci crede troppo. Abbozza una teoresi storiografica "blochiana", ma si ferma a metà, perché l'intenzione destoricizzante per esempio in "Esterno notte" non trova una vera e propria spinta. Evidentemente, il Mussolini di Marinelli non è il Mussolini di "Vincere", che guarda alla sue crepe intimiste, come non potrebbe assomigliare alla "faccia di gomma" de "Il divo", ma la sua aurea fantapolitica, sullo stile de "Il dottor Stranamore" di Kubrick, è difettosa.
Dux Mea Lux
Come detto in apertura, sul Duce di "M - Il figlio del secolo", a riprova del suo status da vero "influencer delle folle", per parafrasare il celebre saggio di Guastav Le Bon, hanno scritto tutti, dalle recensione delle riviste di settore agli editoriali dei principali quotidiani italiani; da chi ha osannato il lavoro futurista di Wright – anche se, a onore del vero, di futurista c'è poco, compreso lo studio della luce, che più che ai quadri di Giacomo Balla tende a quelli dell'espressionismo -, a chi ha giudicato negativamente l'assenza di realismo.
Ebbene, questa critica (neo)realista nasconde almeno due elementi interessanti. In primo luogo, dimostra che "M - Il figlio del secolo" è un elemento di novità assoluta nel panorama seriale nostrano (di per sé abbastanza sterile ultimamente, se non consideriamo "Dostoevskij" dei Fratelli D'Innocenzo arrivata al fotofinish del 2024), al di là di quanto lo sia davvero – che il Mussolini di Marinelli sia una crasi postmoderna tra Frank Underwood di "House of cards" e la protagonista di "Fleabag" è sotto gli occhi di tutti.
In secondo luogo, testimonia, almeno in Italia, la resistenza nel comprendere il ribaltamento da psicoanalisi a polifonia, come scrivevamo sempre nell'articolo dedicato a "Esterno notte", cioè l'idea che se Mussolini era quello, non può essere anche quell'altro. Da questo punto di vista, c'è chi si è addentrato in analisi storiche dettagliatissime, addirittura per ribadire che per esempio non è vero che Mussolini facesse sesso a destra e sinistra come mostra la serie.
Eppure, è lampante che l'uso che fa la serie delle scorribande sessuali di Mussolini (vere o presunte) è allegorico, anche pretestuoso. Nel cinema contemporaneo, l'hanno spiegato in pochi meglio di Lanthimos, da "Dogtooth" a "La favorita": il sesso come esercizio asettico è abuso, imposizione, e potere. Non a caso, una delle sequenze che restano di "M - Il figlio del secolo" è un insolito contro-plongée – il plongée, invece, è usatissimo nei dieci episodi della serie – che raffigura una sorta di striminzito piano americano di Mussolini mentre copula con Margherita Sarfatti (foto in alto e in basso). Si tratta di una scena repulsiva e seducente, un "push-pull": il Duce ci guarda e ci "fotte". Non solo, è una sequenza che riassume il senso animalesco della figura mussoliniana, quella gelosia dei corpi che possiede ogni regime: "la dittatura non è soltanto una forma di governo, è la forma più completa della gelosia, nei suoi aspetti politici, morali e intellettuali[12]".
"M - Il figlio del secolo" è insomma propaganda sui corpi, anzitutto su quello di Marinelli, che ci propone (attraverso la quarta parete) il grande dilemma di Deleuze: se l'immagine è nelle cose o nella nostra testa; e di conseguenza, se il Mussolini che esce dalla storia è reale o para-reale, se la stessa propaganda è qualcosa di serio o ridicolo. A questa intenzione prostetica, che invade lo spazio, che non scegli ma subisci (come la dittatura), chi scrive ci ha creduto a metà.
[1] Lo racconta nel dettaglio il professor Barbero in un intervento di qualche giorno fa che è andato virale.
[2] Cfr. Griffin R., Fascism, Oxford University Press, 1995.
[3] Malaparte C., Tecnica del colpo di stato, Adelphi, 2011, p.242.
[4] Brecht B., Scritti teatrali, Einaudi, 2001, p. 144.
[5] Cfr. Casari M., Benshi, la voce teatrale del cinema giapponese muto, Teatro e Storia, 2-2010, 149-165.
[6] Esponente di spicco del cosiddetto "Nouveau Roman", è stato scrittore, regista, e sceneggiatore per esempio di "L'anno scorso a Marienbad". Una famosa analisi del suo movimento è in Barthes R, Introduction à l'analyse structurale des récits, disponibile al seguente link https://www.persee.fr/doc/comm_0588-8018_1966_num_8_1_1113 .
[7] Cfr. Falcinelli R., Visus, Einaudi, 2024.
[8] Firmatario del "Manifesto degli intellettuali antifascisti" del 1925 assieme a Benedetto Croce, è uno dei principali antagonisti della dittatura fascista, esule tra Francia e Stati Uniti, dove tiene una serie di lezioni diventate famosissime e raccolte in "Le origini del fascismo in Italia" (Feltrinelli, 2015).
[9] Salvemini G., Le origini del fascismo in Italia, Feltrinelli, 2015, p124.
[10] Ivi, p. 128.
[11] Malaparte C., Tecnica del colpo di stato, Adelphi, 2011, p.250.
[12] Malaparte C., Tecnica del colpo di stato, Adelphi, 2011, p.255.
titolo:
M - Il figlio del secolo
titolo originale:
M - Il figlio del secolo
canale originale:
Sky Italia
canale italiano:
Sky Italia
creatore:
Stefano Bises, Davide Serino, Antonio Scurati
produttori esecutivi:
Joe Wright, Nils Hartmann, Erica Negri, Emanuele Marchesi, Ardavan Safaee, Elena Recchia, Simone Gattoni, Paolo Sorrentino, Pablo Larraín, Valerio Bonelli, Francesco Tatò
cast:
Luca Marinelli, Francesco Russo, Barbara Chichiarelli, Benedetta Cimatti, Claudio Bigagli, Gabriele Falsetta, Federico Majorana, Paolo Pierobon, Lorenzo Zurzolo, Gaetano Bruno
anni:
2024