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Un anno di cinema, il riepilogo del 2015

Com'è ormai tradizione, vi riportiamo a vivere le emozioni di dodici mesi di grande cinema, una sorta di (parziale) promemoria in attesa delle vostre e delle nostre classifiche finali. Ecco tutti i titoli da recuperare

Contingenze inspiegabili si abbattono sulle annate cinematografiche e ci inducono a evidenziare conclusioni che in realtà sono assolutamente casuali. Il cinema mondiale è in fase di crisi soltanto perché questo 2015 è stato nettamente il peggiore degli ultimi quattro/cinque? Non lo crediamo. Complice la distribuzione, che recupera con grave ritardo o fa slittare produzioni già bell'e pronte, giudicare dodici mesi di uscite in sala è esercizio alquanto futile e affidato a troppe circostanze fortuite. Meglio forse limitarci, come facciamo sempre su questi lidi nel mese di dicembre, a fare un breve riepilogo di quanto di bello abbiamo visto, un piccolo strumento in supporto ai nostri lettori che nelle ultime settimane prima dell'inizio del 2016 hanno intenzione di recuperare qualche pellicola degna di rilievo e, magari, partecipare al nostro consueto appuntamento delle classifiche.
Un paio di annotazioni possono essere fatte comunque: la prima è che il calendario cinematografico, almeno per quanto riguarda la distribuzione italiana, si sta lentamente ma inesorabilmente modificando rispetto al passato più o meno recente. La primavera, stagione solitamente considerata di passaggio e più che altro consacrata ai blockbuster da milioni di dollari, è il periodo con più opere da ricordare (ci riferiamo al periodo tra aprile e maggio); l'estate, invece, che negli anni di crisi profonda per le nostre città, con vacanze e ferie ridotte all'osso era diventata invece il momento dei recuperi di alto livello, sta tornando alle tradizioni degli anni 90: cinema spesso chiusi per parecchie settimane e pochissimi titoli di nuova uscita.
L'altra annotazione riguarda questo riepilogo: i film citati sono chiaramente frutto delle visioni del redattore scrivente, per questo c'è poi un lungo elenco di tutte quelle pellicole che il resto della redazione ha consigliato nel corso dei mesi passati. Inoltre, e infine, c'è anche da sottolineare che il mese di dicembre è solo parzialmente preso in considerazione, come sempre, dato che le uscite "pesanti" devono ancora palesarsi nel momento in cui scriviamo.


Gennaio

In ossequio a quanto dicevamo, il primo mese dell'anno, tradizionalmente ricco di opere molto attese, si riduce a distanza di tempo a pochi titoli meritevoli di essere citati. E due sono italiani. Cominciamo da un "ibrido", quell'Hungry Hearts pensato e diretto dal nostro Saverio Costanzo, interpretato dall'italianissima Alba Rohrwacher, ma affiancata da Adam Driver in un film recitato in inglese e ambientato in America. Strizzando l'occhio agli stilemi del cinema indie statunitense, Costanzo ci immerge attraverso i meccanismi del thriller in un dramma familiare claustrofobico e angosciante. Forse le due Coppe Volpi per i protagonisti sono state eccessive, ma la messa in scena dell'amore che contrasta la follia e la solitudine dei nostri tempi è così efficace anche grazie a Driver e alla Rohrwacher.
Avrebbe meritato l'Oscar in numerose occasioni, ma alla fine Julianne Moore si porta a casa l'ambita statuetta con la pellicola meno ardita e più convenzionale fra quelle con cui ha concorso per gli Academy Awards. Still Alice, diretto dalla coppia Glatzer-Westmoreland, è il dramma della degenerazione cerebrale di una brillante professoressa colpita da un precoce e spietato morbo di Alzheimer. Per lei, ma anche per la sua famiglia, non c'è scampo. E seppure si tratta di un'opera che non si fa mancare nulla quanto a sentimentalismo e semplicità narrativa, vale comunque una visione per un'insolita delicatezza con cui i sentimenti dirompenti di cui tratta vengono mostrati con pudore e delicatezza. Insomma, titolo perfetto per i soliti premi, ma che non scende a facili compromessi per questo obiettivo.
E tornando in Italia non può non essere citato il caso di Maccio Capatonda e del suo Italiano medio, portato dunque sul grande schermo dopo che in televisione si è costruito un pubblico affezionatissimo che lo venera come un guru d'altri tempi. E fa bene. Pur concedendo qualcosa del suo spirito anarchico e indefinibile alla necessità di conquistare la folla dei multisala, Maccio si muove con una libertà sorprendente, a suo agio sia con il mezzo tecnico, sia sotto il profilo della sua presenza scenica. Si ride tanto, di gusto, le trovate comiche si sprecano, la sceneggiatura tiene. C'è il dubbio che a un secondo tentativo, se mai ci sarà, possa esserci un salto di qualità definitivo. Noi fan lo aspettiamo con devozione e fiducia.


Febbraio


Il cinema del mauritano Abderrahmane Sissako non brillerà forse per potenza visiva o capacità di andare oltre l'esercizio edificante, ma di sicuro ciò che mostra ha in dote un'onestà artistica e intellettuale encomiabili. Si confermano queste capacità anche nel bel Timbuktu, film quanto mai attuale, che narra di un villaggio nei pressi dell'antica città maliana preso d'assalto da un commando jihadista che, dall'oggi al domani, decide di applicare la più spietata legge coranica, tentando di demolire i sogni e le aspirazioni di una comunità povera ma dalla vivacità culturale unica. E proprio su questo fronte la pellicola di Sissako ha la sua forza espressiva maggiore: nella potenza del suo significato, di quanta bellezza e profondità si nasconda in musicisti, intellettuali e pensatori africani.
Ben più terreno e materiale è invece Whiplash, opera già divenuta cult e che ha saputo sbancare alla notte degli Oscar portandosi a casa ben tre statuette. Il regista Damien Chazelle fa un po' il furbo, ostenta abilità di narratore che probabilmente non ha, e così il film sul jazz, sulla tecnica musicale, sul mondo dei conservatori statunitensi si riduce ad altro: l'eterna lotta fra pigmalione e studente-modello, confronto-scontro che molto spesso si trasforma in una relazione fra carnefice e vittima. Proprio come nel caso di questo titolo, dove la parte del leone la fa ovviamente J.K. Simmons, che ha praticato vinto qualsiasi premio si potesse vincere nei panni del non protagonista, il cui personaggio è talmente leggendario già dalle prime smorfie da rischiare di oscurare tutto il resto. Per inciso, il film è tesissimo, divertente, veloce e implacabile come uno sprint sui cento metri.
E che dire del ritorno di Paul Thomas Anderson? Passato più in sordina rispetto alle ultime apparizioni, il suo adattamento del romanzo di Thomas Pynchon, Vizio di forma, che ha messo d'accordo tifosi e detrattori dello scrittore invisibile, tutti concordi nel considerarlo il suo libro più "accessibile", si caratterizza per un'ambizione fuori misura. Il gusto per il racconto circolare e a più voci, tipico della carriera andersoniana, incontra l'attrazione per il grottesco coeniano, sul modello di quanto visto nel capolavoro "Il grande Lebowski". Non tragga in inganno, però, questa considerazione: non è Anderson ad averlo deciso, ma Pynchon stesso ad aver fatto sapere che il grande film dei fratelli di Minneapolis fu tra le fonti del suo romanzo. Semmai stupisce l'adesione al soggetto originale, un virtuoso e orgoglioso come il regista di "The Master" si fa da parte e ripercorre a ritroso una strada tracciata da altri. Ammirevole (come sempre, d'altronde).
Il mese di febbraio è anche quello che ci ha permesso di vedere al cinema il Leone d'oro veneziano del 2014, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza di Roy Andersson, ultima fatica del cineasta svedese, che torna a riflettere, con scanzonato umorismo, sulle piccole tragedie quotidiane del nostro tempo. Si parte con tre incontri con la morte, uno più surreale dell'altro, e poi tutta una serie di incontri fatti da due stravaganti protagonisti in giro per la Svezia. Ogni tappa del viaggio è un pezzo di contemporaneità, messo in scena nella sua incomprensibile assurdità. Il cinema filosofico e al tempo stesso arcaico di Andersson non è certo per tutti, ma una volta accettate le sue regole se ne esce con grande fatica.


Marzo


Monumentale, tragico, dirompente, esagerato, lirico. Il cinema d'azione di Michael Mann non conosce confronti in tutto il mondo: non parliamo di un regista che utilizza l'espediente del genere cinematografico per parlare di molto altro; no, qui siamo oltre. La vita stessa, in tutto il suo doloroso realismo, straborda dallo schermo e ci investe, inermi. Anche Blackhat risponde a questa situazione e non ne sfugge. Un cyber thriller che cela invece tutta la pesantezza del vivere, del compiere il proprio dovere, dello sfidare, non certo per spinte eroiche, ma solo per istinto di sopravvivenza le certezze e le sicurezze del proprio Io. Ancora una volta atterriti e indifesi, il cinema larger than life del Maestro americano ci colpisce al cuore.
Con meno enfasi, ci tocca però salutare un'altra pellicola hollywoodiana di grande spessore vista nel mese di marzo. Parliamo di Foxcatcher di Bennett Miller che, con l'ambito sportivo, pare aver trovato il luogo adatto dove collocare i suoi personaggi. Amante del confronto fra caratteri molto dettagliati, Miller utilizza lo sport, sinonimo di competizione e di sopraffazione tra uomini, per mettere in scena le debolezze dei suoi uomini apparentemente inossidabili. C'è una tensione latente che esplode sottotraccia durante la visione, un sentimento reso in modo efficace dall'autore de "L'arte di vincere". I tre interpreti, poi, sono eccezionali.
Cose di casa nostra: Fino a qui tutto bene, del quasi esordiente Roan Johnson, conferma l'ottimo stato di salute dei nostri giovani autori indipendenti. Qui addirittura si parla di produzione partecipata: tutto il cast ha messo una quota di finanziamento per permettere la realizzazione del film. E hanno fatto bene. Pur nella semplicità di una storia basica, Johnson sceglie una città universitaria storica come Pisa per raccontare gli ultimi tre giorni da coinquilini di cinque studenti universitari. Lontano dal romanticismo di pellicole simili americane, qui siamo più dalle parti di una nostalgia guascona, arricchita da gag e avventure in riva all'Arno.
Dalla Francia, invece, ci arriva l'ultima follia di Francois Ozon: Una nuova amica è opera provocatoria, ma al tempo stesso tenera, emozionante, mai cinica o fasulla. È un colpo di genio del regista a ideare questa assurda storia di confusione d'identità, dove il sesso femminile e maschile si confondono in un gioco di specchi che non ha più nulla a che vedere con tematiche "semplicemente" Lgbt. Ozon cerca di fare un cinema mainstream che puntella con sfide continue allo spettatore. Bravissimi gli attori, su cui primeggia Romain Duris in doppia veste (uomo e donna): per apprezzarne appieno la prestazione bisogna recuperare il film in lingua originale.
Dura oltre tre ore il viaggio all'interno della National Gallery londinese di Frederick Wiseman. Quello che forse è il più grande documentarista vivente ci regala ancora una volta un esperienza visiva che travalica i limiti del mezzo cinematografico. La minuziosità del lavoro, la ricostruzione al dettaglio, l'attenzione al particolare, fanno di questo lungo cammino dentro uno dei musei simbolo d'Europa una vera e propria visita dentro la struttura. Certo, qualche volta non sempre il meccanismo di proposta documentaristica di Wiseman risulta di facile comprensione, e certe volte l'insistenza del suo obiettivo può risultare sfiancante anche per gli spettatori più attenti, ma resta comunque un'esperienza da intraprendere assolutamente.


Aprile

Accompagnato da un alone di mistero e di mitologia per la morte durante le riprese dell'idolo Paul Walker, il Fast and Furious 7 è probabilmente il miglior titolo della saga. Forse saremo degli inguaribili romantici e siamo stati ottenebrati dalla consapevolezza che il cast di protagonisti non potrà più essere al completo, forse sarà la regia ipercinetica del talentuoso James Wan, fatto sta che l'azione non è mai stata funambolica e spettacolare come stavolta, con reali ambizioni tecniche di non poco conto. E pazienza se lo script è un mero pretesto e se il finale strappalacrime, girato dopo la scomparsa di Walker e totalmente slegato dal resto del titolo, è una strizzatina d'occhio davvero ruffiana ai sentimenti più indifesi del pubblico.
Semplice e sincero. Questi due aggettivi, invece, potrebbero perfettamente adattarsi al ritorno cinematografico di Jean-Marc Vallée che, dopo aver fatto vincere l'Oscar a Matthew McConaughey con "Dallas Buyers Club", ci ha riprovato incentrando tutto il suo nuovo film sul volto, il corpo e la bravura davanti alla cinepresa di Reese Witherspoon. Nulla di originale e di sconvolgente in Wild: la storia è il classico scontro amorevole fra l'essere umano in crisi e la natura selvaggia come spazio dove ritrovare se stessi. Qui la quarantenne interpretata dalla bionda attrice statunitense affronta un lunghissimo viaggio in solitaria attraverso i sentieri battuti solo dai più avventurosi. Un'America rustica e di provincia schietta e onesta, quella messa in scena da Vallée. Una pellicola che scorre via  e che lascia dentro dei sentimenti di riconciliazione con il mondo. Terapeutico.
E arriviamo a uno dei casi dell'anno. È l'opera che ha vinto l'Oscar per il miglior documentario, Citizenfour di Laura Poitras ricostruisce, con minuziosità e senza mai rinunciare a una narrazione avvincente da grande schermo, lo scandalo Nsa e la vicenda umana e professionale di Edward Snowden. Un documentario che è prima di tutto un reportage dettagliato, certo, ma che ha il piglio e il ritmo di un vero e proprio thriller. La bravura della Poitras sta proprio in questo saper raccontare eventi reali, senza mai renderli artefatti, eppure tenendo sempre alta la tensione in chi guarda.
In aprile ha segnato il cinema italiano e non solo, poi, il nuovo titolo firmato da Nanni Moretti, Mia madre. E, per un momento, va detto, abbiamo anche sperato che i giurati di Cannes lo tenessero presente per qualche riconoscimento che, purtroppo, e immeritatamente, non è arrivato. Il film è bellissimo, è struggente, è incredibilmente universale. Moretti ha questa forza unica: parla di se stesso e del suo mondo piccolo, perché è ciò che conosce meglio, eppure non è mai saccente o autoreferenziale. La sua leggiadra sensibilità tocca l'animo di chiunque, romano e non, italiano e non, di sinistra e non, intellettuale e non. Il lento e lungo addio dei due fratelli alla loro anziana madre malata è una sinfonia funebre che difficilmente dimenticheremo, un canto pieno di dolore, ma al tempo stesso anche un inno a riprendere in mano la propria vita, nel nome di chi non c'è più.
Vogliamo citare anche un altro documentario significativo, quello diretto da Brett Morgen e dedicato alla vita e alla produzione musicale del leader dei Nirvana. Cobain è pellicola diversa dagli altri reportage degni di nota di quest'anno. Meno ambizioso sul piano narrativo e cinematografico, parla attraverso i fatti, le parole e il materiale che mette in scena. C'è, infatti, un encomiabile lavoro di ricerca alle spalle, una ricostruzione arricchita da elementi inediti che ne fanno un'opera imperdibile non solo per i fan della prima ora, ma per chiunque abbia in dote un minimo di curiosità.
Per soli due giorni, poi, i cinema italiani hanno avuto il privilegio di proiettare l'ultimo capitolo della eccezionale saga di Edgar Reitz, L'altra Heimat, una sorta di prequel dei fatti narrati a partire dal primo Heimat. Ambientato a metà del diciannovesimo secolo, lungo circa tre ore e mezza (dunque nulla in confronto alle durate fluviali degli altri capitoli), si tratta di un titolo che segnerà inevitabilmente questo nuovo millennio di grande cinema. Segnato da un afflato epico, Reitz non rinuncia a un incedere addirittura serrato: fotografia splendida, scene corali perfette, un racconto magnifico di una generazione intera prima dell'avvento del Novecento.


Maggio


Dalla Svezia con furore giunge poi il cinema glaciale e dalle emozioni cristallizzate di Ruben Ostlund, impostosi all'attenzione del mondo con questo Forza maggiore, film sulla disgregazione (e il ritrovamento probabile) di un nucleo familiare in vacanza sulle Alpi. Due ore di piccole rivelazioni che vanno ad accumularsi, a far crescere un continuo stato di tensione pronta ad esplodere da un momento all'altro. Un viaggio che si trasforma per il suo protagonista in una sorta di processo sommario, cui la moglie, i figli e gli amici lo sottopongono. Sicuramente una delle pellicole più insolite e indefinibili dell'anno.
C'è poi da tornare ad applaudire la coppia consolidata, formata dal regista John Michael McDonagh e dall'attore Brendan Gleeson: dopo "Un poliziotto da happy hour", Calvario è la conferma dello stato di salute dell'umorismo nero di impronta britannica. Qui siamo in Irlanda, ma il senso è che la black comedy, un po' appannata ultimamente a Hollywood, nella vecchia Europa funziona ancora. In realtà, a differenza dell'opera precedente, qui da ridere c'è ben poco, nel senso che l'ironia che prende di mira in un sol colpo religione e ipocrisia paesana celano scenari drammatici della nostra contemporaneità.
Forse non verrà ricordato con lo stesso entusiasmo di "Gomorra", ma lo sconfinamento nell'universo del fantasy di Matteo Garrone merita comunque rispetto e attenzione: Il racconto dei racconti, tratto dalle storie di Giambattista Basile e ambizioso tentativo di fare del cinema fantastico profondamente ancorato alla tradizione italiana, è una gioia per gli occhi e in generale un esperimento riuscito. Forse Garrone si lascia prendere troppo dal perfezionismo estetico e il cuore non viene riscaldato a dovere dalle sue storie, ma ci sentiamo di promuovere senza indugio il suo atto d'amore e di coraggio verso un genere così poco considerato nel nostro passato.
C'era grande attesa poi per il ritorno di Mad Max, con la regia saggia ed esperta di George Miller. Cambiati gli interpreti, ora sono Tom Hardy e Charlize Theron, è un titolo che esalta il concetto più autentico di azione. È una corsa a rotta di collo, in una messa in scena sontuosa nella sua cura del dettaglio scenografico. Certo, la sceneggiatura tradisce qualche approssimazione; in fondo, tutto è finalizzato, appunto alla spettacolarizzazione visiva, ma che goduria assistere a certi combattimenti o ad alcuni inseguimenti di massa! Miller, invecchiato, ha perso in potenza narrativa ma ha guadagnato nelle doti di funambolo della macchina da presa.
Il regno dei sogni e della follia
, per la regia di Mami Sunada, è un documentario imperdibile per i fan dello Studio Ghibli. Uno dirà: ma con quel materiale è un delitto non aver girato un capolavoro, ma soltanto un buon film. Sarà forse vero, ma davvero non si può non assistere al gioco di specchi tra i due geni dell'animazione giapponese, Hayao Miyazaki e Isao Takahata farsi piccole ripicche e amorevoli dispetti durante la lavorazione dei loro ultimi film, "Si alza il vento" e "La storia della principessa splendente". Un momento storico per lo Studio: i due fondatori stanno contemporaneamente lavorando alla loro ultima pellicola. Sapere che, probabilmente, stanno per venire alla luce, proprio in quelle fasi di lavorazione che vengono immortalate, le loro opere definitive, stringe il cuore e commuove incondizionatamente.
Definire The Tribe un titolo estremo è alquanto riduttivo. Stiamo parlando di un film interamente non sottotitolato e girato tutto nella lingua dei segni ucraina: una sfida non da poco per lo spettatore, cui si accompagna un'altra prova impegnativa. La pellicola di Myroslav Slaboshpytskiy è ambientata in un collegio per ragazzi sordi e attorno alle loro vicende è palpabile un senso opprimente di tristezza e di devastazione psichica. È un'opera che fa sentire nudo lo spettatore davanti alla sua impotenza nell'osservare così tanta emarginazione e durezza. Assolutamente da recuperare.


Giugno


Con la fine della primavera, la meritoria Lucky Red acquista e distribuisce in Italia un war movie in realtà molto atteso, ma poi finito nel dimenticatoio a causa del fallimento della casa di distribuzione che ne aveva precedentemente acquistato i diritti. Parliamo di Fury di David Ayer, con Brad Pitt nel ruolo del comandante di un carro armato rimasto isolato al di là della linea nemica durante i combattimenti sul terreno della Seconda guerra mondiale. È un titolo che riporta in auge il senso primordiale del girare un film di guerra, ovvero una pellicola che mette al centro del lavoro registico la messa in scena del conflitto. Lasciando da parte, forse anche per superficialità, la cura del contesto storico e geografico, Ayer si concentra sulla durezza dello scontro e questo ne fa un'opera sincera e mai banale.
Sincero non sappiamo quanto, ma banale certo mai, è poi il cinema di quel pazzo che risponde al nome di Peter Greenaway. Eisenstein in Messico, che da noi non è stato neanche doppiato, sintomo di quanto poco si credesse potesse avere un successo commerciale, è uno dei titoli più folli e assurdi di questo 2015. Neanche riusciamo a spiegarci come ha fatto un film di Greenaway ad arrivare nelle sale per la distribuzione. Parla del progetto fallito di una pellicola da girare in Messico del già famosissimo regista sovietico. L'opera non si fece, ma Eisenstein tornò in patria completamente trasformato: furono dieci giorni che gli fecero scoprire il corpo, la morte, il sesso, come mai aveva immaginato. Ovviamente Greenaway bazzica in tutta questa perversione e si diverte a mescolare immagini, rompere le inquadrature, camminare pericolosamente in equilibrio al confine con il trash, ma nelle riflessioni a voce dei suoi personaggi c'è così tanta fantasia e genialità che tutto appare divertente, gioviale, gustoso. Destinato a diventare presto un vero e proprio cult.
Vediamo in calendario un titolo di Kristian Levring e pensiamo al Dogma 95 e a un film di rottura. Poi invece veniamo spiazzati dopo averlo visto: The Salvation, storia di sangue e di immigrazione nel Far West di fine diciannovesimo secolo. E non è un western alternativo quello di Levring, ma, oseremmo dire, assolutamente mainstream. Tutto strizza l'occhio alla tradizione classica del genere. Tranne qualche lentezza di troppo, è pellicola di piacevole compagnia.
Céline Sciamma, autrice dell'acclamato "Tomboy", migliora se possibile la già alta considerazione che avevamo del suo cinema. Diamante nero, nuovo romanzo di formazione e brutale inno di libertà e di orgoglio femminile, è un'opera preziosa, colorata, trascinante, un'entusiasmante avventura verso l'emancipazione sociale e personale. È un titolo che non va sottovalutato neanche dal punto di vista politico: nel suo aggredire un quartiere dominato dal sessismo, la Sciamma getta il suo sguardo indignato sulle periferie francesi in stato di abbandono, dove la criminalità può diventare una via per uscire dall'isolamento.
Lo scatenato Alex Gibney mette a segno un altro ottimo colpo con il suo ennesimo, riuscito documentario: parliamo di Going Clear, atto d'accusa agghiacciante sul potere di Scientology di annientare le coscienze e lucrare sulle debolezze umane. Alternando una minuziosa storia della "chiesa" alle testimonianze di alcuni fuoriusciti, ancora una volta Gibney ci mette davanti la realtà travestita da cinema d'azione. Distrarsi dalla sua narrazione, sostenuta da un ritmo forsennato, è pressoché impossibile.


Luglio/Agosto


Lo stato di forma di Noah Baumbach si conferma a questo nuovo giro: Giovani si diventa, distribuito in sordina da noi in questa afosissima estate, va a comporre un'ideale trilogia insieme a "Il favoloso mondo di Greenberg" e a "Frances Ha". Il regista di Brooklyn continua a scandagliare il mondo della contemporaneità, tra ironia sorniona e squarci di crudele realtà, ambientando sempre le sue storie in una New York poliedrica ma anche stranamente inospitale. Stavolta è il conflitto generazionale a permettere, in un sol colpo, una doppia analisi: ipocrisie, fallimenti e frustrazioni di quarantenni e trentenni del nuovo millennio.
Dall'Australia arriva finalmente un horror come si deve. Ci mancavano quest'anno un po' di titoli di genere: ci accontenta l'esordiente Jennifer Kent con il suo Babadook, racconto angosciante, quasi tutto messo in scena fra le mura domestiche, girato con grande maestria e padronanza dei meccanismi della tensione. Il soggetto non è certo dei più originali, ma si sa, l'orrore psicologico, soprattutto quando scaturisce da situazioni familiari deliranti, origina veri brividi, se narrato con la dovuta cura del dettaglio. E qui c'è tutto quello che cercavamo.
Ci vuole anche un po' di sana azione e torna Tom Cruise nella sua versione agente speciale Ethan Hunt a regalarcela. Il nuovo capitolo della saga di Mission: Impossibile si affida a un autore maturo e consapevole come Christopher McQuarrie, che da giovane studiava da novello Tarantino e che poi ha trovato nell'action il suo habitat naturale. Il risultato è adrenalina allo stato puro, esibizione muscolare di trovate spettacolari. A volte si esagera, certo, soprattutto con la commistione tra funambolismo dell'azione e consueta concessione alla comicità, ma di sicuro si sale su una giostra divertente (e progettata con professionalità).
Di rilievo, poi, c'è anche un piccolo film italiano, con una storia distributiva alquanto particolare. La bella gente di Ivano De Matteo è infatti un film di diversi anni fa, presentato con un certo apprezzamento nel piccolo festival di Annecy, ma poi dimenticato da qualche parte dai produttori. Poi De Matteo si è nel frattempo fatto un nome con "Gli equilibristi" e "I nostri ragazzi" e dunque ne è stato recuperato questo lavoro precedente. A ben ragione, visto che si tratta di un'ottima pellicola, che lavora per contrasto, anche grazie a un buon gruppo di attori affiatati, per mettere alla berlina la borghesia romana, avvolta nella propria falsità, pronta ad esplodere al primo corto circuito. Un'opera da recuperare.


Settembre

Quando ne scrivemmo la recensione, mai avremmo immaginato che il consenso sarebbe stato così diffuso e unanime da spingere fino alla designazione per correre agli Oscar 2016, ma tant'è: Non essere cattivo è il terzo titolo della scarna carriera da regista di finzione del compianto Claudio Caligari, morto quando il film era stato appena terminato. Grazie alla strenua volontà dell'amico Valerio Mastandrea, ne è stata completata la post-produzione e poi è stato distribuito. Poche ciance: siamo di fronte a una pellicola preziosa, che, se dovete ancora vederla, vi strazierà il cuore e l'anima, vi riempirà di una dolorosa malinconia e vi farà sentire pienamente negli anni 90. La dura vita dei borgatari di Caligari è così vera, così palpabile che atterrisce anche il più duro degli spettatori. Se non è in assoluto il miglior film italiano dell'anno, poco ci manca.
E probabilmente ritroveremo tra i trionfatori dell'Academy fra qualche mese anche Inside Out, la nuova opera Pixar prodotta dalla Disney e diretta da uno degli autori più ispirati della casa creata da John Lasseter. Parliamo di quel Pete Docter che ha già firmato "Monsters & Co." e "Up". Un trittico micidiale, insomma, considerando anche l'ultimo titolo. Sì, perché dopo qualche uscita non propriamente di primo livello, le menti Pixar tornano a schiacciare la concorrenza nel cinema d'animazione con un film ispirato e riuscito, arricchito oltretutto da un immaginario visionario sorprendente e ammaliante. Come per altre delle produzioni migliori, anche stavolta, forse, è un lungometraggio più adatto ai grandi che ai piccini, ma c'è spazio per davvero tanti sentimenti durante la visione: si va, infatti, dal ritmo serrato di fulminanti scene avventurose alla commozione dei momenti più toccanti.
E che dire poi del ritorno di Eli Roth e del suo cinema horror senza fronzoli? Noi ne diciamo abbastanza bene, anche se non tutti la pensano allo stesso modo. La sua furia guascona è a tratti esilarante, intravediamo anche un certo sadismo nel modo in cui decide di maltrattare le vittime predestinate delle sue scorribande terribili. Dopo aver fatto massacrare per bene i "turisti alternativi" frequentatori degli ostelli europei, stavolta, in The Green Inferno, Roth omaggia ancora il nostro Ruggero Deodato facendo precipitare in Amazzonia un gruppo di giovanotti benestanti e armati di tante buone intenzioni e una certa dose di ideologia ecologista a buon mercato. Quale miglior sorte che farli finire bolliti nel pentolone di una tribù cannibale? La censura si è addirittura scomodata con un divieto ai minori di diciotto anni.


Ottobre


Il tempismo perfetto dell'uscita in sala ne ha fatto un evento di costume. Peccato, diciamo noi, perché alla fine si è parlato più di Suburra in sterili dibattiti dal vacuo gusto nazionalpopolare più che giudicare la pellicola per ciò che è: un dramma corale e circolare ambientato nella Roma attuale, che fotografa benissimo differenti sentimenti e sensazioni di un sottobosco tragicamente presente nel centro storico e nelle periferie. L'opera di Stefano Sollima è stata considerata dai detrattori, a torto, come esempio di caricatura involontariamente comica, con quei suoi gangster così violenti ed esibizionisti e una certa esagerazione enfatica nella messa in scena. Ma in realtà a Sollima l'iperbole è sempre piaciuta, è una sua cifra stilistica, una firma che ama utilizzare per esasperare la narrazione. Se si eccettuano alcune concessioni al linguaggio televisivo, parliamo invece di un titolo di assoluto rilievo per l'ambizione con cui guarda, senza temere il confronto, ad esempi monumentali del gangster movie.
Abbiamo perso Tim Burton ma abbiamo salvato Guillermo Del Toro. Il cineasta messicano, che tempo addietro aveva lasciato la lavorazione della trilogia tolkeniana sullo Hobbit, torna con un film che non accetta compromessi nella sua pulsione verso l'eccesso, anzi, gli eccessi: visivo, narrativo, citazionista, melodrammatico. Crimson Peak è un racconto gotico, apparentemente imparentato con il genere horror, salvo poi aprirsi nel suo apice emotivo al versante più sentimentale e drammatico delle sue premesse. Scenografie mozzafiato, messa in scena sinuosa ed elegante; la pellicola si avvale poi delle prestazioni al top del trio Wasikowska-Chastain-Hiddleston.
Un pamphlet femminista sembra un'espressione triste per una pellicola. Ma Mustang dell'esordiente Deniz Gamze Erguven è tutto fuorché un'opera che ispira sensazioni di questo tipo. Invece è un inno alla libertà di espressione e di padroneggiare il proprio destino, un atto di accusa neanche tanto velato al dominio anche privato che Erdogan pretende di esercitare nelle case dei cittadini. In una Turchia agreste e di provincia va in scena l'avventura di cinque sorelle che sognano la musica, il sole e lo sport e che invece la loro famiglia ha in mente di custodire come un bene di proprietà fino al matrimonio combinato. Qualcuna acconsentirà, qualcuna soccomberà, qualcun'altra riuscirà a fuggire. Senza mai citare il presidente, la Erguven fa tremare l'establishment di Ankara raccontando le indicibili vergogne e ipocrisie della società turca.
Uno dei ritorni più clamorosi di questo 2015 è quello di uno dei grandi "padri" della New Hollywood. Parliamo del venerabile Peter Bogdanovich, tornato a sedere dietro una cinepresa a sette anni di distanza dall'ultima volta. Il trailer, la sinossi, le premesse di Tutto può accadere a Broadway farebbero pensare a un esercizio ludico, un titolo secondario nella pur disomogenea filmografia dell'autore de "L'ultimo spettacolo". Nulla di più sbagliato. Siamo di fronte a una commedia maiuscola, che fa resuscitare la gloriosa tradizione slapstick, omaggia i grandi del passato, da Wilder a Edwards passando per Lubitsch, in una farsa rocambolesca e cinefila che uccide dalle risate. Potremmo anche scomodare la tanto temuta parola "capolavoro".


Novembre


Novembre comincia con l'atteso nuovo 007. Abbiamo già detto dell'importanza di avere dietro la macchina da presa un autore vero, con una precisa idea di Settima arte. Ci aveva fatto questa impressione, con "Skyfall" il premio Oscar Sam Mendes. Ci riprova con Spectre, episodio che segna un leggero passo indietro rispetto al predecessore, anche se, dobbiamo dirlo, alla fine il risultato se lo porta a casa comunque e per questo lo inseriamo a ogni modo nel nostro riepilogo. Pur rinunciando in fase di sceneggiatura a una plausibilità degli eventi davvero convincente, difetto che alla lunga rischia di stancare, Mendes, aiutato dal solito rampante Daniel Craig, mette comunque in scena un action duro e puro, dove esplosioni, scontri fisici, sparatorie e inseguimenti sono il fulcro della narrazione. Chi si accontenta non uscirà sicuramente deluso.
C'è poi da segnalare un nuovo capitolo della favola Pixar, a distanza di due mesi da "Inside Out". Il viaggio di Arlo, diretto dal giovane Peter Sohn, non ha certo le aspirazioni alte del predecessore, ma resta comunque un ottimo esempio di cinema d'animazione per i più piccoli. Ecco, questa è la sorpresa maggiore. Se con il film di Docter la Pixar parlava ai più grandi e forse i bambini si potevano persino annoiare, stavolta riscalda il cuore osservare una sala gremita di piccini rapiti letteralmente dalla proiezione. Il racconto è su misura per loro, infatti: è una semplice ma onesta storia di crescita, un'avventura, un viaggio che conquista in una natura selvaggia, ostile ma rispettosa.
Un thriller sentimentale ad alto tasso erotico (ma solo mentale, visto che non succede quasi nulla) è A Bigger Splash, l'ambiziosa nuova pellicola di Luca Guadagnino presentata in concorso a Venezia. Nella suggestiva cornice di Pantelleria il regista italiano fa esplodere passioni represse, sensazioni non dette e ambiguità varie. A volte, come spesso accade in Guadagnino, si ha l'impressione che ci sia troppo autocompiacimento in questo esercizio intellettuale, ma va premiato sicuramente l'intento di non accontentarsi, di regalare allo spettatore qualcosa di insolito per il nostro cinema.
Chiudiamo la rassegna novembrina con un lieto ritorno, almeno secondo chi scrive. Parliamo della nuova fatica di M. Night Shyamalan, in parte "costretto" dai recenti fallimenti a ridurre il budget della sua ultima opera, per farne quasi un titolo da "straight-to-video". Invece The Visit sembra riproporre alcune talentuose intuizioni del felice passato del cineasta di origini indiane. La sua poetica, fatta di una realtà indefinibile e incomprensibile, di eventi che nascondono sempre un aspetto nascosto sorprendente, riesplode in tutta la sua originalità. Il maestro del colpo di scena torna a farci sorridere, e a tratti ridere fragorosamente, in questa insolita commistione fra brivido e grottesco. Un titolo destinato a diventare un cult.

Il mese di dicembre è al momento ingiudicabile: nei primi due weekend non si segnalano pellicole particolarmente valide, semmai sono in maggioranza le delusioni, o comunque registi affermati da cui ci si attendeva prove ben più convincenti. Ma l'abbuffata natalizia sarà davvero fragorosa: ci aspettano Abrams, Spielberg, Allen e Sokurov, tutti in una settimana. Sarà divertente annullare tutti gli impegni e piazzarsi davanti al cinema per giorni e giorni. Per poi uscire e finalmente stilare, ognuno a modo suo, noi redattori e voi lettori, l'imprescindibile classifica di fine anno.   


E per finir, un'ultima considerazione. Come ogni anno, anche stavolta il riepilogo è redatto da un unico redattore, influenzato necessariamente dai suoi gusti, le sue preferenze, la sua personale idea di cinema. Per rendere più completo il tutto, eccovi allora un elenco dei film che abbiamo recensito nel 2015 e che hanno ottenuto una critica favorevole da parte del nostro recensore di turno:

45 anni
A Blast
Amy
Bella e perduta
Cloro
Dheepan
Dove eravamo rimasti
Eden
Ex Machina
Francofonia
French Connection
Gli ultimi saranno ultimi
La isla minima
La vita oscena
Le ricette della signora Toku
Leviathan
Louisiana
Operazione U.N.C.L.E.
Partisan
Quando c'era Marnie
Sangue del mio sangue
Short Skin
Sicario
Straight Outta Compton
Taxi Teheran
The Fighters
The Lobster
Turner





Un anno di cinema, il riepilogo del 2015